a cura di Stefano Ricchiuti
Ricordo un episodio, accadutomi nel 2002 quando da poco ero entrato nella prima categoria nazionale di handicap, che mi offre lo spunto per trattare della cosiddetta comfort zone (zona di comfort) o, più specificatamente – nell’ambito della prestazione sportiva – di quella che potremmo definire come performance comfort zone.
Ero all’ultimo giro di un campionato nazionale e, in quell’occasione, ero partito abbastanza bene. Dopo un par alla prima buca realizzai infatti un birdie alla buca 2, al quale ne seguì un altro alla 3, e poi ancora un altro alla buca 4. Alla buca 5, una volta arrivato in green, mi trovai ad un putt di solo un metro di distanza dalla buca per realizzare il mio quarto birdie di fila. Mentre fino ad allora ero andato avanti con il pilota automatico, quasi inconsapevole di quello che stava accadendo, di fronte a quel facile putt cominciai a sentirmi un po’ emozionato e, non so il perché, a disagio. Mi addressai sulla palla ed effettuai il mio putt. Poco prima di colpire tuttavia, un leggero hyps dei polsi fece partire la mia pallina direttamente verso sinistra, ed essa rotolò a lato della buca senza nemmeno sfiorarla. Alla buca successiva feci un bogey, ed improvvisamente presi coscienza di come il mio stato d’animo stesse nuovamente cambiando, lasciando spazio ad una strana sensazione di coerenza con me stesso ed allontanando il disagio di poco prima.
Solo diversi anni dopo, quando affrontai un percorso di sei mesi sul miglioramento personale nell’ambito della psicologia dello sport, presi coscienza di quanto mi era accaduto in quella circostanza. Per la prima volta sentì parlare infatti di temi quali la nikefobia, la zona di comfort, e le limitazioni auto-imposte.
Scoprii come la mente dei giocatori è davvero troppo spesso rivolta al punteggio, e di come esso sia relazionato sia alla nostra sensazione di coerenza con esso, sia al parametro onnipresente del par (netto o lordo che sia).
Ciò che capii innanzitutto è che quando giochiamo troppo male per i nostri standard abituali ci sentiamo a disagio (e fin qui avevo scoperto l’acqua calda!) ma che questo avviene anche – e ciò purtroppo capita molto più di rado – quando giochiamo troppo bene, troppo bene perlomeno per quelli che sono le nostre abituali performance alle quali siamo abituati. Chi si trova infatti troppo in basso o troppo in alto nel proprio rendimento, cerca subito di rientrare nella propria zona di comfort, in una situazione che conosce bene e che non presenta troppe novità. E’ un qualcosa il più delle volte istintivo, ma del quale è opportuno rendersene conto. Infatti, se va bene cercare di migliorare il proprio punteggio quando si sta giocando particolarmente male, perché ciò non può accadere anche quando si sta giocando particolarmente bene? Ciò che mi è stato insegnato ai tempi, e che vorrei riproporre a voi, è quello di sfidare innanzitutto voi stessi ad ottenere di più, e poi ancora di più e di più. Aldilà di un lecito discorso legato al talento, all’allenamento, al fisico, etc. il prendere a modello di riferimento gli scores dei giocatori dei Tours maggiori degli ultimi anni può essere (relazionando chiaramente il tutto alla vostra situazione) particolarmente utile: si tratta perlopiù di una sfilza di birdies e eagles, spesso consecutivi. Pensate che essi, quando giocano bene, si accontentino? Non relazionano il gioco al par in quanto, il gioco del golf, consiste nel tirare meno colpi possibili, e non nel fare 18 par di fila (di nuovo netti o lordi che siano). Buon golf a tutti!